“Il sogno del maratoneta” è il sogno di Dorando Pietri (1885-1942), il nostro piccolo grande maratoneta dell’inizio novecento e la narrazione è quella della magica penna di Giuseppe Pederiali (1937-2013).
Ne nasce un romanzo biografico che ci fa rivivere un mondo di altri tempi e una pagina di sport che commosse il mondo intero: quella del drammatico epilogo della maratona ai giochi Olimpici di Londra del 1908, quando Dorando Pietri tagliò per primo il traguardo, dopo, però, essere stato sorretto dai giudici di gara che l’avevano soccorso per averlo visto barcollare più volte, stremato dalla fatica. Lasciò il campo in barella e solo quando si riprese venne a sapere che, a causa dell’aiuto ricevuto, era stato squalificato ed era stato cancellato dall’ordine d’arrivo della gara. John Hayes fu proclamato vincitore.
Questi gli ultimi cinquecento metri narrati da Giuseppe Pederiali:
“Dorando potrebbe limitarsi a tenere alle spalle Hefferon e Hayes. Invece aumenta l’andatura, non vuole correre rischi ora che è primo. Porta alla bocca la spugna ormai asciutta, la butta via. Gli sembra di avere buttato via anche le ultime energie.
Non avrebbe dovuto accelerare dopo il sorpasso. Le gambe sono molli e tremano, il petto gli duole, respira a bocca aperta. La benzina sta per finire, ma non può fermarsi proprio adesso, in vista dello stadio. Barcolla, si guarda attorno. Gli occhi appannati trovano un mondo diverso. Come essere ubriaco. Come essere ubriaco dentro la nebbia, una delle profumate nebbie di casa sua.
Capisce che se resta fermo non riuscirà poi a rimettere in moto. Benzina e motore. Ma lui non è un’automobile, ha un cervello che funziona ancora, e anche un cuore, seppure disperato.
Ricomincia a correre. In fondo è la cosa più facile del mondo, basta mettere una gamba davanti all’altra.
Barcolla, avanza a zigzag. Hefferon e Hayes ancora non si vedono. Gli arrivano le parole confuse del giudice di gara che gli è accanto, ma che non vede. L’ombra di un portico gli fa capire di aver raggiunto l’ingresso dello stadio.
Le gambe si piegano, come se dovessero sostenere una tonnellata. Di nuovo al sole, sulla pista dello stadio, accolto dal grido di saluto di settantacinquemila bocche.
Gira a destra, d’istinto. Un giudice lo sfiora con la mano e gli dice: «A sinistra! Torna indietro!».
Le parole gli arrivano dentro il sogno, le capisce come se fossero nel dialetto di Carpi. Fa dietrofront e cade in ginocchio.
«Coraggio! Devi soltanto percorrere duecento metri…»
In due lo aiutano a rialzarsi.
«Un mezzo giro ti separa dalla vittoria!»
Le gambe non ne vogliono sapere, e neppure i polmoni che rifiutano l’aria del White City Stadium. Vorrebbero aria fresca e pulita, e il silenzio della montagna. Il pensiero si aggrappa a una passeggiata con Teresa sull’argine del Secchia, che non è una vera montagna, ma sa di buona terra e di erba. Barcolla, percorre una dozzina di metri.
Cade. Si rialza da solo. Altri cento metri, tutti in un colpo, con le gambe piegate e gli occhi traforati da spilli.
Cade.
«Rialzati!… I tuoi avversari non sono neppure in vista dello stadio…» gli dice una voce.
Supino, gli occhi al cielo. Passa una nuvola, che si ferma a guardare. Un faccione si china su di lui. Lo bacia. Che sia il bacio al vincitore? La bocca maschile gli soffia aria dentro i polmoni, l’aria inglese di un inglese.
«Sono un medico.»
Questa è davvero brava gente, gli vogliono bene. Lo aiutano a rialzarsi, gli indicano il traguardo. Gli danno perfino una spinta per rimetterlo in moto. Leggera, o rischia di cadere un’altra volta.
Venti metri e finisce in ginocchio, procede carponi, lo rialzano, «Il filo di lana è a pochi passi!» grida qualcuno.
Una mano robusta lo sorregge. Guarda l’uomo. Ha in testa una paglietta e in mano un megafono.
«Lasciami», gli dice Dorando. O forse lo pensa soltanto.
Con il petto spezza il filo teso sul traguardo. Ancora un passo.
Primo nella maratona!, grida Dorando, senza voce”.
Il dramma di Dorando Pietri commosse tutti gli spettatori e, per compensarlo della mancata medaglia olimpica, la regina Alessandra lo premiò con una coppa d’argento dorato. Di lui Arthur Conan Doyle scrisse: «La grande impresa dell’italiano non potrà mai essere cancellata dagli archivi dello sport, qualunque possa essere la decisione dei giudici».
La mancata vittoria olimpica fu però anche la chiave del suo successo. Sull’onda della fama acquisita ricevette un buon ingaggio per una serie di gare-esibizione negli Stati Uniti e pochi mesi dopo, al Madison Square Garden di New York, andò in scena la rivincita con Hayes. Pietri, tra l’immensa gioia dei tantissimi immigrati italiani presenti, la vinse staccando il rivale negli ultimi 500 metri.
Ma il romanzo di Pederiali non è solo questo episodio. E’ tutta la vita di questo piccolo grande uomo; da quando, garzone di pasticceria, faceva le consegne correndo, alle prime gare e alle prime vittorie, all’amore per Teresa, alle sfide negli Stati Uniti (20 giorni di viaggio in nave, ci volevano allora) fino alle ultime gare lasciate per i problemi al cuore. Ritiratosi dall’agonismo nel 1911 tentò, senza fortuna, l’attività alberghiera assieme al fratello. Dopo il fallimento dell’hotel realizzato con i risparmi dei premi vinti, si trasferì nel 1923 a Sanremo, dove aprì un’autorimessa. Nella città dei fiori rimase fino alla morte, che lo colse a 56 anni.
Una vita ricca di episodi romanzeschi, di glorie e sconfitte, di determinazione e passione, di piccole e grandi gioie e amare delusioni.
Sullo sfondo: uno frammento di storia di quegli anni che ci paiono così lontani e che, certamente, non ritorneranno più.
Un buon libro, una piacevole lettura.
Mio gradimento ***/****
-.-
Memo: nella categoria Libri :
– I miei precedenti post
– La tabella di riepilogo.
– Le mie cinque stelline
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